Dante, l’uomo

Come leggiamo il Sommo Poeta oggi? Il prof. Salvatore Grillo risponde proponendo un’attenta e interessante disamina con cui ci svela un volto nuovo: “Dante, l’uomo”.

Sul Sommo Poeta è stato scritto di tutto, o quasi, per questo non credo di essere lontano dal vero nell’affermare che esiste, ormai, una Lectura Dantis perenne. In essa ogni epoca ha colto gli spunti a lei più congeniali, come si fa per ogni capolavoro eterno, che sa parlare all’uomo di ogni tempo e luogo. Analisi infra, inter e intratestuali hanno dato sempre più linfa alla comprensione della Divina Commedia. Tuttavia, come leggiamo oggi Dante? Se ci atteniamo ai libri in uso nelle scuole, spesso antologie che presentano in un unico volume una sintesi delle tre cantiche, oserei dire che si è fatto e si fa di tutto per allontanare il senso della Commedia dalla esperienza di tutti i giorni, relegandola a un genere letterario, quello allegorico – didascalico (che per la Divina Commedia non significa nulla ed è riduttivo), e a un compito in classe o per casa da svolgere. In questo modo Dante diventa una “cosa” da fare dentro un’altra “cosa”. La Divina Commedia è relegata al mero dato letterario, finendo per essere analizzata sub specie litterarum. Ad alimentare un approccio ancora più superficiale al testo è anche la modalità con cui la nostra cultura si avvicina, in genere, alla lettura e ai generi letterari, modus che ha decretato la scomparsa di alcuni di essi, millenari, come ad esempio la poesia, e celebrare il successo di altri, più comodi da leggere prima di dormire, per conciliare il sonno, o sotto l’ombrellone, tanto per rilassarsi.

È un fatto che per millenni l’umanità ha avuto sì modalità diverse di avvicinarsi al testo (dal mondo greco con la “scoperta” della “lettura silenziosa” a quello medievale e rinascimentale, illuminista, romantico, etc.) ma, specie nella cosiddetta “età di mezzo”, la lettura era vissuta come l’approccio a un testo “sacro” e tutto il bagaglio che la tradizione aveva tramandato costituiva una sorta di breviario su cui conformare la vita sociale, come quella politica. Ad esempio, all’epoca di Dante e fino almeno al cinquecento non era infrequente che i lettori mandassero a memoria interi passi di libri o facessero dei florilegi: l’angoscia dell’influenza (H. Bloom) è una invenzione moderna (romantica per l’esattezza), poiché palesi riferimenti a testi autorevoli, in passato, rendeva lo scritto degno di nota e indicava altresì a quale pubblico si era diretti e quale messaggio si voleva veicolare.

Mandare a memoria. L’espressione italiana, in verità, non rende l’idea dell’operazione che un lettore di un tempo compiva. Forse la lingua inglese potrebbe rendere meglio il concetto, restituendoci l’esperienza di lettura di un uomo medievale o comunque premoderno: by heart (su questo si veda il grande G. Steiner, Nessuna passione spenta. Saggi (1978 – 1996), Garzanti, Milano).

L’operazione che Dante lettore, ad esempio, compiva, non era leggere o mandare a memoria, ma un mediare by heart, cioè interiorizzare, masticare (come la ruminatio dei monaci) il testo, renderlo proprio e paragonarlo all’esperienza. Fatte queste brevi premesse si comprende come l’approccio alla Divina Commedia pretenda un aggancio TOTALE che non trascuri nessun fattore, diventando, così, una esperienza di “traduzione” senza “tradire”, di empatia e, in fondo, di domanda sul passato, sul presente, sulla propria vita.

Basarsi su quanto appena detto, ad esempio, significa soffermarsi sulla prima terzina della prima cantica con doveroso rispetto, per comprendere in realtà cosa Dante volesse dire e proporre ai suoi contemporanei come ai moderni.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

L’incipit di un’opera, per lungo tempo, nella tradizione occidentale, chiariva al lettore cosa stava per affrontare nella lettura e indicava, come dire, un aspetto “programmatico”: le carte erano subito svelate, e questo vale maggiormente per un uomo come Dante, che aveva operato una vera e propria teoria (rivoluzionaria) della lingua e dei generi. Per lui è estremamente vero il connubio fra pensiero e linguaggio, poesia e filosofia, come lo sarà per pochi altri nel panorama letterario italiano e straniero. Per lui la poesia e il linguaggio sono la “casa dell’Essere” di cui egli è “custode” (Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo).

Come nel quadro di Jean-Baptiste Siméon Chardin, Le philosophe lisant, ci si para innanzi un vero e proprio “avvenimento”, una funzione sacra di fronte alla quale ci si copre il capo come il sacerdote nella classicità.

Il lettore medievale, infatti, sapeva che nel primo verso Dante sta citando le Sacre Scritture, e che quel “nel mezzo del cammin di nostra vita” non indica soltanto un dato meramente cronologico, ma rappresenta anche e soprattutto l’ammissione di una vera e propria missione profetica (come sarà ribadito più volte nel primo canto).

Il primo verso è un vero e proprio calco del capitolo 38,10 del Libro di Isaia che recita: “Io dicevo: A metà della mia vita me ne vado alle porte degli inferi…”.
Al lettore Dante dava in maniera palese una molteplicità di “significati”, nel dettato e oltre esso. Primo: il testo si introduce anche nel filone dei libri profetici; secondo: dà indicazioni specifiche sulle condizioni (non del tutto felici) del tempo a lui contemporaneo; terzo: pone le basi per la certezza del “lieto fine”, nella garanzia di una visione provvidenziale della storia e del cosmo.

Il capitolo 38 del libro di Isaia, infatti, è costituito per lo più dal cosiddetto Cantico di Ezechia, che è un inno alla misericordia e all’aiuto di Dio nelle avversità (varrebbe la pena citarlo tutto).

mi ritrovai per una selva oscura

La parafrasi, che come ogni traduzione è sempre un “tradire” (entrambi i termini condividono la stessa radice) impone, specie a un lettore moderno, l’assoluta resa in italiano corrente dei termini (mi ritrovai in, o per un bosco, una foresta oscura o senza luce), come se si parlasse di un personaggio qualunque, che affronta un percorso qualunque e che si perde. Niente di più lontano da Dante, dalla sua cultura, dal suo tempo, da quella epistème di cui egli è l’espressione più sublime, dalla missione che ricopriva, dal “senso” che si accingeva a dare alla vita sua e dell’umanità.

Il pronome “mi” e il passato remoto “ritrovai” non indicano, come nella cultura attuale, che è quella della deresponsabilizzazione del soggetto, un “accidente”, un mero accadimento, in virtù del quale, senza colpe e senza coscienza intenzionale “accade” qualcosa. Solo nella modernità la colpa è quasi sempre dovuta a un fatto esterno. Il pronome mi, al contrario, indica assoluta intenzionalità e ostinata autoreferenzialità (come dimostrerà il suo uso nel verso 100 del famoso canto XXVI dell’inferno) e l’iterativo “ri” nel verbo “trovarsi” indica non un fatto contingente, ma ripetuto; il passato remoto, infine, svela l’assoluta presa di coscienza della propria condizione. Quanto al luogo, fuori dalla lettera, non vi erano dubbi che, all’interno della tradizione medievale (specie agostiniana) e di quello che gli antropologi culturali chiamano “logica per immagini” o “logica delle qualità sensibili” (Claude Lévi-Strauss) la selva (non rappresenta, ma è) una condizione esistenziale. È troppo facile e, parimenti, troppo riduttivo, dire che è la condizione del peccato, perché useremmo termini moderni, peraltro ormai privi di significato, per indicare concetti che probabilmente, così come li pensiamo, non esistevano neanche nel medioevo.

L’aggettivo “oscura” rimanda immediatamente alla causa (se si accoglie, come faccio, la versione del Petrocchi) “ché la diritta via era smarrita”. Mi preme soltanto sottolineare, a questo punto, come anche in questo verso sia presente il riferimento biblico (al Nuovo Testamento stavolta) e come si possa rintracciare anche la lettura di Mosè Maimònide, filosofo e rabbino ebreo, che fiorì in quel giardino di cultura e apertura mentale rappresentato dal Califfato di Cordova, sotto la dinastia almoravide. Proprio Maimònide, specie con la sua opera La guida dei perplessi, influenzerà la Scolastica e il “padre” filosofico di Dante, Tommaso D’Aquino.

Quella che Dante si appresta a narrare, è, allora, una condizione esistenziale vera, dentro un tempo reale e, in quanto “profetica”, esemplificativa e d’eccezione. Dante è perfettamente radicato nel suo tempo e incarna (vive nella carne), le angosce, i desideri, le speranze, i turbamenti, i dolori e le gioie della sua umanità e dell’umanità di tutti i tempi. Questo aspetto potrebbe rendere, allora, un Dante capace di parlare a tutti, compresi i contemporanei, millennials, generazione Z o Alpha che siano. Veniamo, allora, a un nuovo modo di guardare la Divina Commedia e Dante, che ha un mentored’eccezione in Franco Nembrini (non a caso le sue lezioni, tenute anche nei teatri, sono piene di gente di ogni età).

Dante, alias l’uomo, alias ognuno di noi, è chiamato a un certo punto della vita ad attraversare l’inferno del non senso, delle ansie, diremmo oggi, delle preoccupazioni, delle incomprensioni e dentro questo inferno si perde. Ad un certo punto intuisce che così non può andare avanti, intravede un bene per lui (il monte nella Divina) e fa di tutto per arrivarci con le proprie forze, ce la mette tutta, ma non può farcela da solo, perché da solo ancora erra, vagabonda disperato (l’ideologia della meritocrazia e del merito è invenzione che risale all’umanesimo, ma che oggi ha nel neocapitalismo uno dei suoi più validi apostoli; ho scritto diverse pagine su questo aspetto, che condividerò fra le righe on line di Archimedia).

Sì, risulta vero quello che Polo risponde al Gran Kan, mentre, sfogliando le carte del suo Atlante, si lascia andare al nichilismo, convinto come è nelle sue affermazioni che tutti, inevitabilmente, ci facciamo risucchiare dall’inferno. “E Polo: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Milano 1972, pag. 82)

Dante riconosce nel buio un volto, e lo invoca, implora aiuto: quel volto, che in mezzo al nulla, nulla non è, sarà Virgilio, cioè, tradotto per ognuno di noi, una persona autorevole, di cui ci si fida, che non mente e sa in quale direzione guardare per attraversare il guado. È nel preciso istante in cui si affida a Virgilio, che quello di Dante non è più un vagabondare, ma un cammino, diventa il cammino suo e di ognuno di noi, quando dall’inferno di una “pesantezza”, qualunque essa sia, attraversiamo il purgatorio della consapevolezza, per arrivare, infine, nel paradiso di una raggiunta certezza su di sé, sul proprio essere-nel-mondo, sulla propria meta.

Il destino di Dante protagonista della Divina Commedia è quello di tutti. Di chi non gliene importa, di chi gliene importa poco o molto, perché volenti o nolenti, siamo tutti tessere importanti di un mosaico e la meta non è il niente, la polvere che il tempo disperderà.
Ma, come insegna Dante, la ragione perché ci sia un cammino è accettare la sfida della strada e, nel batterla, affidarsi agli occhi di uno, nel cui sguardo intuiamo una promessa di Bene.

Dante ci restituisce una esistenza in cui è presente un senso, per questo ci si mette in movimento; una vita in cui non esistono conati inutili, ma in cui ognuno ha la sua nota personale, che è chiamato a scoprire, e lasciarla risuonare per rendere la grande Sinfonia dell’Essere. Quello che Dante – uomo ci comunica è che non c’è nessuna condizione, neanche la più abietta, che ci possa impedire di risplendere, se si è introdotti in un cammino. Per lui, infatti

Ne l’ordine […] sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti. (Paradiso I, 109 – 114)

Affrontare Dante, non trascurando il valore esistenziale e pedagogico della sua Divina Commedia, significa anche accompagnare e farsi accompagnare a una scoperta di sé, perché, in definitiva, il cammino della vita non è altro che questo: cadere, permettere a un altro di tenderci la mano per rialzarsi, uscire a rivedere le stelle (Inferno XXXIV, 139) e saziare la propria sete di senso, la propria domanda di felicità (l’amor che move il sole e l’altre stelle, Paradiso, XXXIII, 145).

Prof. Salvatore Grillo