Ha ancora un significato insegnare nell’epoca della tecnoscienza e del postumano?

In un’epoca dominata dalla tecnologia, il prof. Salvatore Grillo offre una riflessione profonda sui legami tra parole, scienza ed educazione. Esplorando la crisi educativa in essere, il docente, che impugna l’eredità di filosofici classici e contemporanei, enfatizza il valore di riscoprire la meraviglia nell’apprendimento ed esorta gli insegnanti a un coinvolgimento sempre più profondo nella loro missione formativa.

Le parole sono importanti”, gridava Nanni Moretti in Palombella Rossa, “chi parla male, pensa male e vive male”. Concordo. Ma per evitare che le parole restino significanti senza significato, nel tempo che viviamo, quello della reificazione dell’uomo e della tecnica come soggetto autonomo e attivo, occorre che io sia chiaro sin dalle premesse, svelando le mie carte.

Per secoli, quando le grandi narrazioni erano possibili e gli “schemi di civiltà” (Dodds), pur con evidenti fratture fra l’una e l’altra, concepivano il cosmo come un enorme contenitore definito, dentro cui l’uomo aveva degli spazi chiari, la memoria collettiva danzava nell’alveo di orizzonti dove il rito, se da un lato ripercorreva il limite di cui sostanzialmente erano impastati tempo ed estensività, dall’altro restituiva senso al ciclo vitale. Il simbolo o la metafora tenevano legati l’uomo al tutto e le parole, lungi dall’essere flatus vocis, restituivano, anche nel mistero dei loro intrecci, il legame profondo con la realtà. Non a caso il greco antico era una lingua “concettuale”, mentre le altre, seppur “semiologiche”, non potevano dimenticare, almeno in occidente, che la “Parola si è fatta carne”, restando indissolubilmente connessa con la materia che la costituiva e con la cosa che indicava. Mutuando un concetto caro a Michel Foucault, io credo che “l’episteme di un’epoca” se da un lato, a partire dall’età classica, seguendo il grande studioso francese, fino all’Umanesimo e Rinascimento non ha messo in pericolo ciò che è “umano”, dall’altro è proprio dall’età barocca, fino al dominio assoluto della tecnica in età contemporanea, che si mette per la prima volta in discussione la possibilità che ciò che è interamente umano possa significare ancora qualcosa. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: dall’ambito educativo, a quello economico e sociale.

Non sono né “apocalittico” né “integrato”, per usare definizioni di Umberto Eco, ma se scrivere e pensare vuole essere ancora un atto che si avvicini, almeno un pochino, alla parresia non si deve trascurare nulla, anche nella brevità di un intervento.

Il dato di fatto è che oggi per la prima volta nella storia dell’umanità assistiamo al trionfo della tecnica, diventata la vera padrona del mondo e della storia (come non leggere e rileggere, su questo aspetto, le pagine di Umberto Galimberti?). Da quando i greci la rinchiusero nella sfera della hybris, condannando Prometeo, che proprio la tecnica portò agli uomini, essa è diventata in grado di fare ciò che può e vuole. E a ciò che è “totipotente”, come si può dare un’etica, nel senso tradizionale, o una politica che la regoli? La tecnica ha invaso il campo delle relazioni umane, dei rapporti economici, si è resa “coscienza” diventando bisogno, medicalizzando le frustrazioni, portandoci nella terra del postumano dove l’io (ammesso che esista o non sia una mera attivazione di una frequenza elettrica nel cervello, come hanno cercato di dimostrare Koch e Crick), è ridotto alla somma dei propri antecedenti culturali e biologici. Il fisicalismo, se dal punto di vista teorico è superato dalle ricerche di una pletora di neuroscienziati e filosofi della mente, sembra tuttavia trionfare nel pensiero comune.

Intendiamoci: non è mia intenzione demonizzare alcunché; per buona pace di tanti, volenti o nolenti, le civiltà si trasformano, i paradigmi interpretativi del reale hanno una nascita, una vita e una morte. Un modello è stato sostituito da un altro e modi di pensare considerati indistruttibili sono stati scalzati e affidati alla storia. La definizione, poi, di peggiore o migliore che si è data a questa o quell’altra modalità, è soltanto l’evidenza degli attributi che un sistema di potere attribuisce alla precedente o a se stesso.

Credo, come ha scritto Byung-Chul Han in Psicopolitica, che il Potere culturale odierno sia riuscito anche a far fuori uno dei concetti hegeliani di maggior successo, il cui scontro, almeno, poteva portare alla coscienza di qualcosa: la dialettica servo – padrone. Oggi il servo si sottomette volontariamente, permettendo con passiva felicità, e spesso senza neanche accorgersene, che altri si introducano ovunque, pure nella propria vita privata. Facilmente, poi, si orienta l’opinione pubblica, determinando censure, successi e mode. E non solo: mi pare che la tendenza attuale sia quella di creare generazioni di ignoranti, sia pur nativi digitali, che non riescono a distinguere una pubblicità da una notizia (secondo un ricerca della Stantford University del “lontano” 2016 e riportata dal Sole24ore) e che, nella “democraticizzazione” del web fanno prevalere al parere di un esperto quello di un tiktoker. Cui prodest? Non rispondo, almeno in questa sede, e vado avanti.

È vero, ogni aspetto toccato finora meriterebbe certo degli approfondimenti a parte, ma la veloce disanima finora fatta vuole solo condurci al nocciolo della questione che qui affronterò: in un sistema culturale così complesso è possibile ancora insegnare? È possibile un principio educativo da cui partire e in grado di formare individui coscienti di sé e del mondo? È possibile che la scuola possa dire ancora qualcosa? E cosa significa “insegnare”?

Per intenderci occorre che ci diamo un metodo e un principio condiviso da cui partire, altrimenti si corre il rischio di scrivere fiumi di parole trite e ritrite, che non fanno altro che sviare dal problema principale. Siamo chiamati ad andare al nocciolo della questione.

Diceva Alexis Carrel che “Molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”.

Occorre, perciò, partire dall’esperienza e da ciò che in ultima istanza è costitutivo della donna e dell’uomo in quanto tali, affinché possiamo riuscire a cogliere l’origine, grazie alla quale ogni approccio educativo risulti tale.

Andiamo allora in profondità, partendo da ciò che evidente, sia agli addetti ai lavori che ai profani.

Appartiene ormai anche al senso comune la convinzione che le tecniche di insegnamento siano importanti, e che esse, assieme a una buona organizzazione della lezione, permettono di costruire un percorso di crescita personalizzato che sappia, partendo dal setting di aula, arrivare a un artefatto finale o a degli obiettivi che l’allievo o l’allieva sapranno, se orientati, autovalutare. Brainstorming, le fasi di scaffolding, modeling, fading, la peer education, l’uso delle TIC, le pratiche dello storytelling, hackathon, circle time, role playing, cooperative learning, flipped classroom, PBL, etc (cito così, a casaccio), sono il toccasana in grado di colmare il gap educativo e di rispondere alle necessità formative dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze. Chi può dire che non sia così?

Ma il primo problema è che, a mio parere, tutto questo viene dopo ciò che dovrebbe essere l’origine, il punto di partenza, “la madre di tutte le battaglie”.

Il secondo problema sta in una domanda a cui non desidero rispondere, perché non è funzionale al discorso: se partiamo dai termini (e le parole sono importanti) comprendiamo quale sia l’origine degli impianti teorici che sussumono le pratiche appena accennate. Sono riusciti nei Paesi che ormai da anni hanno fatto proprie quelle modalità a dare una risposta seria alla crisi educativa?

Terzo problema: l’insegnamento è come un tavolo da laboratorio dove necessariamente a una causa risponde deterministicamente un effetto, oppure è una relazione dentro la quale c’è sempre un fattore X, che costituisce un mistero? Possiamo nella tecnocrazia attuale, che impone velocità e mutamento costante, almeno solo cercare qualcosa che rimane?

Partiamo dalla nostra esperienza e dalla nostra vita. Le circostanze che ci hanno permesso di diventare ciò che siamo sono state date in virtù di una tecnica o è accaduto qualcos’altro, magari di apparentemente banale, come l’avvenimento di un incontro?

E qui veniamo all’origine. Quale può essere il punto di contatto che accomuna tutta la storia del genere umano, il bandolo della matassa per cui possiamo dire che c’è qualcosa che vale come strumento conoscitivo per tutti gli uomini e donne, a partire da quando abbiamo imposto alla spina dorsale un lavoro immane e ci siamo sollevati per guardare le stelle? Cosa ha permesso all’Homo sapiens di essere tale, da quando ha costretto l’osso ioideo a spostarsi in maniera innaturale, così da profferire i primi vagiti di parola? Qual è l’esperienza originaria che ognuno fa?

Parto dall’ultima domanda e rispondo.

Aristotele affermava che la conoscenza nasce dalla meraviglia e che lo stupore è la predisposizione naturale dell’animo per affrontare l’avventura della conoscenza. Se qualcosa non suscita meraviglia nessun movimento conoscitivo è possibile. Se ci riferiamo alla nostra esperienza non può che essere così. A tutti è capitato e capita di destarsi dal torpore della quotidianità di fronte a un volto, a una circostanza che ci “costringe” a un “interesse” non provato prima, catturando la nostra attenzione e tenendola desta. La meraviglia, lo stupore sono l’esperienza originaria per cui l’essere umano accetta la sfida del movimento.

Partendo da questa semplice constatazione, che per questioni di spazio ho semplificato al massimo, possiamo dare risposta anche agli altri quesiti.

Il filo rosso che unisce sia in senso diacronico che sincronico il genere umano e quanto di più bello esso ha generato è la domanda, il desiderio, la ricerca di senso.

Quanto ho testé affermato è talmente chiaro ed evidente che non ha bisogno di riflessioni teoriche impegnate. Se facciamo memoria della nostra esperienza, se “leggiamo” quanto più ci affascina, se tocchiamo con mano ogni aspetto del nostro agire, non possiamo non verificare che il punto di partenza è proprio quello che la cultura ebraico – cristiana appella “cuore”, con il suo fascio di domande, con il suo infinito desiderio, con la costante e mai domata invocazione di senso. È quello di cui si era accorto anche Victor Frankl quando parlava di componente “trascendentale”, definendo così l’uomo non come “volontà di potenza” (Adler) o teso al soddisfacimento di bisogni (Maslow), ma puro anelito di senso e costante autosuperamento. Come non pensare poi alla fine del dualismo fra ragione e cuore operato da Max Scheler, Maria Zambrano, o alla fenomenologia dell’intersoggettività, alla dimostrazione “incarnata” del valore della relazione con la scoperta dei neuroni specchio, alla “epifania del volto” di Levinas.

Cerco di andare al dunque, dato che lo scopo che detta la mia scrittura, in questa sede, è solo quello di suscitare un dibattito su alcuni temi che oggi più che mai meritano di essere affrontati.

Se, come abbiamo detto, il principio che fonda ogni presupposto educativo è la radice “di significato” verso cui è proteso l’umano, se l’io si riconosce in virtù della relazione con un tu, allora il processo di apprendimento – insegnamento non può che svolgersi se non dentro una relazione autentica.

Cosa significa? Che la relazione educativa è un’esperienza imperniata sul principio educativo della realtà, che il punto di partenza è il docente, che incontra il mistero di una libertà e ne accetta il rischio.

Mi spiego. Se chi insegna (in – signo, imprimo qualcosa o oriento verso qualcosa di significativo) non incarna su di sé il dramma di una umanità vera, non è “interessato”, cioè, dall’etimo, non è “inter sum”, dentro la realtà con tutto se stesso; se chi insegna non parte da una ipotesi positiva, se non vive lo stupore dell’essere nel mondo, se non vive la “domanda”, che sta al fondo di ogni esperienza, specie quella adolescenziale, se non accetta la sfida del cambiamento, se non mette da parte ogni propria visione del mondo, per fare spazio al mistero che in ultima istanza è l’allievo e fa entrare in sé il suo mondo, se non parte da questi assunti elementari, sarà solo un ripetitore di contenuti.

Come si può “interessare” un altro se non si vive un “interesse” per lui?

Come si può in – segnare se non scorre nelle vene la certezza che la realtà è più grande di qualunque propria ipotesi? Come si può introdurre ai “saperi” se essi stessi non affascinano, nel principio della loro unitarietà? Si può solo restare ancorati, nella migliore delle ipotesi, alla propria disciplina e concepire il testo in uso come lo speaker televisivo, imbonitore di verità di fronte al quale restare come elemento assorbente, senza significato e storia.

Come scrive Shakespeare nell’Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”.

Come si può insegnare ad essere critici nel senso vero (quello “etimologico” della parola) se a sua volta non si è “critici” anche con le presunte certezze?

Critica, da krínò, che significa “giudico”, ma anche rovistare attentamente.

Se non si è disposti a rovistare fra le molteplici distrazioni attuali, a rovistare come nella molteplicità dei luoghi comuni, delle false notizie, delle frasi fatte, delle informazioni preconfezionate, per giudicare cosa rende umano e cosa no, cosa è vero e cosa non lo è, se non si è “mendicati” del volto dell’altro e del vero, come si può educare alla criticità?

Se non si dà all’errore un valore conoscitivo, come si può educare all’errore come opportunità?

Scriveva Manuel Vázquez Montalbán che “il movimento consiste non nel muoversi, ma nell’essere mosso”. L’in- segnante è colui che muove perché è mosso e la meta è la strada che rende libero l’educando, che rende ogni sua libera scelta una scelta consapevole.

Viviamo in un’epoca in cui la crisi educativa è sotto gli occhi di tutti. Per questo, a mio avviso, ora più che mai, essere insegnanti significa vivere, appunto, fino in fondo il sintagma poc’anzi espresso come un tutt’uno inscindibile, nel significato pieno che entrambi i termini sussumono. Essere insegnante ha un valore ontologico ed etico ed è un’esperienza che, in primis, vale per sé.

Il problema attuale è, a mio parere, non tanto la tecnoscienza in sé, i fallimenti, anche educativi in sé, tutte le dozzinali informazioni approssimative da cui siamo invasi, o la cultura della rabbia, del terrore o del banale che sia; il problema del mondo contemporaneo è il rischio della perdita dell’umano: evitare di desiderare ( o desiderare qualcosa detta da X o Y o Z), evitare la domanda (o domandare ciò che altri chiedono), schematizzare il mondo in ideologie laiche o religiose, che ingabbiano l’essere umano in definizioni, schemi o regole, far fuori l’esperienza in nome di un pensiero, ridurre la realtà al proprio io o alla propria Weltanschauung .

Scriveva Rilke, in una delle sue Elegie duinesi,

E tutto cospira a tacere di noi,

un po’ come si tace un’onta, forse,

un po’ come si tace una speranza ineffabile.

Ecco, cambiate le cose da cambiare oggi tutto o quasi sembra tacere di noi, tacere di ciò che è squisitamente umano come se fosse un’onta.

Eppure le questioni sono semplici: nella realtà c’è tutto, talmente tutto che, riprendendo cosa Vico, autore oggi raramente accennato nelle scuole, scriveva nell’epigrafe dedicatoria della sua Scienza nuova, “Sembravano traversie ed eran in fatti opportunità”.

Nella realtà c’è tutto e ciò che ci sembra ostile o arduo è solo un’occasione, una opportunità, basta saperla leggere.

Diversamente si corre il rischio di essere sì, bravi trasmettitori di conoscenze e competenze, nonché ottimi utilizzatori degli ultimi ritrovati della tecnica, ma non stupiamoci se poi nella “banalità del male” sguazza un numero sempre eccessivo, a mio parere, di persone che obbediscono a ciò che aggrada o a ciò che un algoritmo ha deciso per loro. Forse rileggere Hannah Arendt potrebbe servire a qualcosa e comprende come evitare funesti “corsi e ricorsi” storici, perché le bandiere che pretendono di essere totali e totalizzanti sono sempre dietro l’angolo, pronte a far fuori l’infinita estupefacente molteplicità di fattori di cui è costituito l’umano, mistero compreso.

Salvatore Grillo