Frankenstein e Geppetto ossia del creatore e il padre. Razionalismo e Realismo in due opere paradigmatiche

Frankenstein o il moderno Prometeo è uno dei capolavori del Gotic novel, scritto da una giovanissima Mary Shelley all’età di 19 anni. L’idea del romanzo sorse nell’anno senza estate, il 1816, quando Shelley si trovava a Ginevra in compagnia del marito e lì, assieme a un gruppo di amici, fra cui Polidori, trascorreva le giornate anche a discutere sulle teorie del galvanismo e sulla conseguente possibilità da esso teorizzata, che l’elettricità fosse in grado di ridare la vita. Molteplici furono le influenze letterarie e scientifiche che ispirarono il capolavoro del romanzo gotico: da Galvani, alla celebrazione che il giovane Kant aveva fatto di B. Franklin (eroe moderno che, come il Prometeo greco, aveva ingabbiato la potenza di Zeus), alle teorie del mesmerismo (presenti anche in E. A. Poe), da Rousseau (con il mito del buon selvaggio), alle teorie politiche e antropologiche di William Godwin, padre dell’autrice. Continuando, possiamo notare anche l’influsso di Humphry Davy che, forte degli esperimenti di A. Volta, fu il primo, agli albori del 1800, a dar vita alla illuminazione elettrica grazie alla elettrolisi. Il sensismo, specie lockiano, la fa da padrone in intere pagine del romanzo, mentre un antecedente da ricordare è senza dubbio l’esperimento condotto dal nipote di Galvani, G. Aldini, nel 1803, che suscitò enorme scalpore. Tramite l’uso dell’elettricità Aldini riuscì a far muovere il cadavere di un condannato a morte, tanto da far sembrare ai presenti che esso potesse rianimarsi. Certo, sono tante altre le influenze che possiamo riportare e dimostrare (la forma epistolare ad esempio rimanda alla Pamela di Richardson), ma la cosa che balza nella sua evidenza è che dietro il capolavoro della Shelley c’è anche l’inquietudine dettata da un sempre più crescente progresso tecnologico e una riflessione, oggi diremmo bioetica, sulle possibilità che la tecnica offre (già allora, fra le conversazioni degli intellettuali, ci si chiedeva cosa potesse essere un progresso tecnico senza un altrettanto progresso nel campo dell’umano).

Il punto di partenza del Romanzo sembra essere la domanda di Adamo, che fa nel Paradiso perduto di John Milton: «ti ho forse chiesto io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità?», che Shelley pone in epigrafe del suo scritto.
Victor Frankenstein è un uomo ossessionato dall’idea di dare vita alla materia. Egli è il razionalista – creatore, convito assertore della possibilità infinita della ragione umana di giungere al mistero della vita: «Spesso mi interrogavo sull’origine del principio vitale. Era un quesito audace, un mistero mai svelato; tuttavia quante cose saremmo sul punto di conoscere se la codardia o la disattenzione non ostacolassero le nostre indagini» (M. Shelley, Frankenstein o il moderno Prometeo). Victor è fratello del Faust di Goethe o del Satana del Paradiso perduto di Milton, vittime e carnefici in virtù di un atto di hybris iniziale (come quella del mitologico Prometeo) che deriva da una tracotante superbia. «Esaltato comʼero dal mio primo successo, nessun obiettivo mi sembrava ormai fuori dalla mia portata. […] Fu in questo stato d’animo che mi accinsi a dare inizio alla creazione di un essere umano. […]Vita e morte … disegnavo intorno alla mia impresa una barriera ideale, che avrei potuto infrangere per riversare un torrente di luce sul nostro buio mondo» (Ivi).

La creatura sarà portata in vita da Frankenstein, il quale si accorge di aver creato un essere deforme e dalla forza smisurata e per questo lo ripudia, senza nemmeno dargli un nome. Essa sarà chiamata, infatti, nel corso del romanzo, creatura, cosa, mostro. Il razionalista Victor ha creato qualcosa che non corrisponde al suo progetto e per questo la nega, non dandogli neanche la dignità del nome, che è in grado di attribuire una identità e una appartenenza. Privando la sua creatura del nome, Frankenstein, infatti, nega anche la possibilità che essa possa avere una sua natura identitaria, gli nega l’esistenza nel consorzio umano e la possibilità stessa di un processo di formazione. Victor dimostra di vedere soltanto quanto rientra nella sua progettualità, e questa sarà la sua dannazione: da puro razionalista non è in grado di vedere la realtà nella sua interezza e di non capirne, non tanto i limiti, quanto gli imprevisti di cui essa è imbastita.

La creatura, alla ricerca del suo creatore, si imbatte nella famiglia di De Lacey, un anziano uomo che con i suoi viveva di stenti. Egli, di notte e di nascosto, li aiuta in segreto, spalando la neve o portando la legna. Finalmente la “cosa” decide di mostrarsi, convinto di essere accolto. Ma la vista di un essere così mostruoso suscita una immediata reazione violenta e di disgusto. Al mostro non resta che la fuga e, una volta incontrato il creatore, una domanda: il desiderio di avere un essere di sesso opposto che gli possa stare accanto, e con lei rifugiarsi nei posti più reconditi della terra.
Ovviamente non è mia intenzione, in questa sede, né di analizzare il romanzo, né di fornire il riassunto della storia, ma di proporre un paio di spunti di riflessione partendo da alcune figure esemplari della nostra letteratura.
Alla questione nodale che emerge abbiamo già dato una sommaria risposta: Victor è il razionalista che non riesce ad assecondare la realtà. Pur di far coincidere il suo pensiero con l’atto distrugge tutto ciò che gli sta accanto, compresa la moglie Elizabeth. La creatura viene ripudiata perché non corrisponde a ciò che lui credeva, a ciò che si aspettava, rendendola inevitabilmente un mostro. È incapace di essere padre perché non sa amare, non sa accompagnare nell’abbrivio di una ripartenza, neanche con un “non avere paura”. Entrambi condivideranno lo stesso destino di distruzione, nel tentativo irrisolto di inseguirsi a vicenda e di vendicarsi reciprocamente, perché, in fondo, sono il riflesso l’uno dell’altro. In questo sfrenato dissolversi reciproco emerge da un lato il fallimento del cupio sciendi, che non si sa paragonare con il reale, e dall’altro l’impossibilità di un rapporto dentro una relazione/non relazione in cui la proiezione narcisistica perversa non dà spazio all’alterità e alle domande vere dei due. È un atteggiamento non molto lontano, presente soprattutto quando ci si comporta da “creatori” con una persona che si dice di amare o voler bene. Gli sforzi del creatore sono direzionati a compiere ciò che si è progettato per l’altro o l’altra, impedendo a questi ultimi la possibilità di avere un nome, cioè una propria identità, una propria personalità e un proprio modo di vedere le cose. In questo modo l’altro o l’altra diventa un fallimento e si trascorre il tempo o moralisticamente nel pentimento o nella impossibilità di poter trovare un punto di aggancio con l’alterità, alla quale si consegna la vergogna di essere come si è e la paura di mostrarsi al mondo.
Diversa è la posizione di Geppetto, che, rispetto a quanto ha “creato” è padre e, in quanto tale, non razionalista, ma realista.

Carlo Collodi scrive prima a puntate, nel Giornale per i bambini, la sua storia (si dice per poter pagare dei debiti di gioco). L’intenzione dell’autore era quella di chiudere il racconto con l’impiccagione e la morte del burattino, ma dato l’enorme successo di pubblico, si risolse di concluderlo e pubblicarlo in volume nel 1883 con il titolo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Fu la nascita di un best e long seller immediatamente riconosciuto come un vero capolavoro assoluto da Benedetto Croce, il quale intuì che il legno di cui era intagliato Pinocchio è tutta l’umanità. E di fatto Le avventure di Pinocchio non sono soltanto un capolavoro letterario, ma anche un vero e proprio “breviario” di pedagogia.

Credo che un po’ tutti conoscano la trama del racconto, in questa sede vorrei solo richiamare alcune parti importanti per comprendere meglio la relazione fra Geppetto e Pinocchio.
Mastro Ciliegia, intenzionato a costruire da un pezzo di legno il piede di un tavolo, inorridisce di fronte al fatto che quella materia inerte parla, e ha un atteggiamento simile al dott. Victor Frankenstein: non riuscendo a capire e non potendo fare ciò che pensava, lo dismette, consegnandolo a Geppetto. Anche quest’ultimo, all’inizio ha un proprio progetto: «Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?» Il desiderio di un pover’uomo affamato che ambisce almeno alla sopravvivenza. Tuttavia a questo suo parlar ad alta voce il legno risponde: «Bravo Polendina!» Immediatamente il rapporto è provocatorio, e resterà tale anche quando Geppetto comincia a dare forma al pezzo di legno: «La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo. — Smetti di ridere! — disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro. — Smetti di ridere, ti ripeto! — urlò con voce minacciosa. Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua. (…) — Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca! — (…) — Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!»

La relazione è unilaterale, ma Geppetto compie due gesti importanti: gli dà un nome e lo chiama figliolo, definendosi padre. E come tale si comporterà per il resto del racconto. Lo accompagnerà, introducendolo alla vita, lo rimanda costantemente alla realtà (vende la giacca per comprare l’abecedario), andrà costantemente alla sua ricerca, quando per un motivo o per un altro Pinocchio si lasciava tentare dalle sirene della “vita spensierata”, andrà persino in prigione per colpa sua (e il burattino sembrava non essere assolutamente preso da questo evento).
Pinocchio lo chiamerà “babbo” solo nel settimo capitolo, quando, uscito di prigione Geppetto busserà alla porta: «— Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla strada. — Babbo mio, non posso — rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra. — Perché non puoi? — Perché mi hanno mangiato i piedi.» E ancora continua a mentire: il burattino aveva perso le gambe perché incautamente si era sdraiato vicino al camino.

Pinocchio ne combina di tutti i colori e si caccia costantemente nei guai, non curante del padre e disposto anche a colpire con una martellata il Grillo Parlante (la coscienza). Ma Geppetto, nella sua semplicità, è un uomo certo, sa in quale direzione andare, come e verso dove accompagnare il figlio. Il creatore è un creatore buono, disposto, come nella Parabola del Figliol prodigo, ad accogliere incondizionatamente Pinocchio. Continua ad amarlo, così come è, senza scandalizzarsi di nulla. Non inorridisce di fronte alla sua creatura come Victor Frankenstein.

Quando Pinocchio tocca il fondo (sta per essere impiccato) ecco un sussulto della coscienza e della ragione: «Babbino mio, se tu fossi qui». Nel buio più profondo Pinocchio si riconosce finalmente figlio e individua in Geppetto la figura positiva di riferimento (se tu fossi qui il male non sarebbe prevalso su di me; se tu, padre, fossi qui sapresti come salvarmi). Il burattino comprende la fonte dell’amore e ne ha sete. Come per il figliol prodigo comprende che nella casa del padre ha tutto quello di cui ha bisogno: uno sguardo capace di guardalo come nessuno mai lo ha guardato, capace di abbracciarlo come nessuno, e in grado di accoglierlo senza le pretese di un “progetto”.

Pinocchio decide di intraprendere il percorso che lo porterà all’umanizzazione. Va alla ricerca del padre che, ha saputo, ormai disperato, non trovandolo, si è costruito una barca per andarlo a cercare oltre il mare. E sarà il mare, cioè l’infinito, il luogo dove si ritroveranno, nel ventre del Pescecane che li aveva divorati entrambi. Dopo l’abbraccio per l’inaspettato incontro Pinocchio chiede al padre come ha fatto a sopravvivere per due anni nel ventre del pesce. Per la prima volta il suo pensiero non è egocentrato ma eteroverso. Ad un certo punto il burattino invita il padre a fuggire.

«Allora, babbino mio — disse Pinocchio — non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire… — A fuggire?… e come? — Scappando dalla bocca del Pescecane e gettandosi a nuoto in mare. — Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare. — E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia. — Illusioni, ragazzo mio! — replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente. — Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle? — Provatevi e vedrete! A ogni modo se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme. — (…) — Venite dietro a me, e non abbiate paura.»

Il passo è veramente interessante per un triplice motivo:
1. i ruoli sembrano invertiti, Pinocchio parla come se fosse il padre.
2. Geppetto sminuisce l’idea del figlio.
3. Non abbiate paura! Riconoscersi figli è il segreto per diventare padri e il burattino, in virtù di questo riconoscimento, è ora in grado di far da padre al suo creatore. Geppetto risponde a Pinocchio come molti di fronte a un ragazzo: “ma sei ancora un ragazzino! che puoi fare tu!”. Questa è la tentazione di non prendere sul serio chi è più giovane di sé, reputandolo inadeguato.

Pinocchio, però, esorta il padre diventando padre egli stesso; Non abbiate paura! Il padre incoraggia, prende per mano, infonde sicurezza, anche nei momenti più bui.
Pinocchio accudisce il padre malato e alla fine diventa umano, rinasce bambino, ma per farlo ha bisogno di essere “partorito” dalla Fata Turchina. Il cerchio della sua formazione è concluso dal perdono ricevuto da lei, perché il burattino, nel pianto di fronte alla tomba di lei, aveva mostrato compassione e coscienza di sé e dei propri atti.

Essere padri e madri significa generare ogni giorno e riconoscere l’alterità, anche quando questa è “diversa” da come ci aspettiamo. Si genera, però, se ci si riconosce figli, e nel farlo, se si è in grado di rimandare alla realtà, di sostenere senza essere visti, di essere certi, che vuol dire giudicare senza escludere nessun fattore in gioco, dare respiro ai propri desideri e alle proprie domande, prendere sul serio a propria vita.
Oggi non è cosa da poco, abituati come siamo alla critica tranchant e alla frettolosità, che non fa altro che confermare la nostra idea sul mondo, i nostri pregiudizi.

Prof. Salvatore Grillo